Ha prestato servizio nel 4º Reggimento alpini paracadutisti dal 1999 al 2011, periodo durante il quale è stato dislocato in vari teatri tra cui i Balcani, l’Iraq e l’Afghanistan, dove nel 2010 si rende protagonista dell’azione che gli varrà il conferimento della medaglia. Dal 2011 al 2018 presta servizio nel 62º Reggimento fanteria “Sicilia” per poi fare rientro nei ranghi del 4º Reggimento alpini paracadutisti Ranger di Verona, il 28 agosto 2018 rivestendo il Grado di Sergente, promozione ottenuta per merito di guerra, la prima ad essere stata conferita dopo la 2ª Guerra Mondiale. Andrea Adorno è nato nel Catanese, a Belpasso. Ma è su una strada sterrata di Bala Morghab che è diventato un eroe di guerra. Il sergente maggiore Adorno ha salvato in battaglia, da solo e ferito, un’intera squadra di commilitoni. Per questo ha ricevuto la Medaglia d’Oro al Valor Militare ed è il primo graduato dell’esercito in vita e in servizio attivo a vantare questo riconoscimento. Quella dell’eroe di guerra ormai è una figura legata ai libri di storia. A scorrere la motivazione con cui nel 2014 Adorno ha ricevuto la medaglia dalle mani dell’allora capo dello Stato Napolitano si ha la sensazione di essere catapultati in un altro secolo. «Nel corso dell’operazione Maashin IV, mirata a disarticolare l’insurrezione afghana, conquistato l’obiettivo, veniva investito con la sua unità da intenso fuoco ostile. Con non comune coraggio e assoluto sprezzo del pericolo, raggiungeva d’iniziativa un appiglio tattico dal quale reagiva con la propria arma all’azione dell’avversario. Avvedutosi che il nemico si apprestava ad investire con il fuoco i militari di un’altra squadra del suo plotone, non esitava a frapporsi tra essi e la minaccia interdicendone l’azione». «Seriamente ferito ad una gamba, manteneva stoicamente la posizione garantendo la sicurezza necessaria per la riorganizzazione della sua unità. Fulgido esempio di elette virtù militari». Siamo nel luglio del 2010, l’allora caporal maggiore scelto dell’esercito aveva 30 anni. Nella regione a nord-est di Herat sono i mesi caldi degli scontri quotidiani tra gruppi di insorti da una parte e soldati italiani, afghani e americani dall’altra. L’obiettivo della coalizione Nato è di creare una «bolla di sicurezza» e conquistare terreno. «Ero di stanza a Herat ho raggiunto la valle in elicottero con la mia squadra. La missione di quel giorno era effettuare una pattuglia di supporto ai soldati afghani». Il caldo soffocante, la polvere sottile e il pesante equipaggiamento sono routine. Non il fuoco nemico che arriva all’improvviso. «Veniamo sorpresi dagli insurgent. Il conflitto a fuoco va a avanti per circa un’ora e mezza. Mi accorgo che una delle nostre unità ha difficoltà a ripiegare e a mettersi al riparo. Mi sposto di lato per poter fare fuoco di copertura e vengo colpito alla coscia destra». Il proiettile di grosso calibro trapassa la gamba da parte a parte, sfiorando l’arteria femorale. Oltre alla lesione causa una grave ustione, per fortuna Adorno non riporterà danni permanenti. «Mi rendo conto di essere ferito, i pensieri sono fulminei. Continuo a fare fuoco finché la squadra in pericolo raggiunge la zona sicura. Alla fine comunico via radio che sono stato colpito e vengo riportato alla base». Dopo alcuni giorni il rientro in Italia, il ricovero all’ospedale militare del Celio, la lunga convalescenza. «Mia moglie, che era incinta del nostro secondo figlio, è venuta a prendermi e mi ha riportato a casa». Il sergente quindi viene trasferito al 62esimo Reggimento fanterie di Catania, ma poi è tornato al vecchio reparto, il quarto Reggimento alpini paracadutisti «Ranger» di Verona, dove era stato già per nove anni e da dove era partito per le sette missioni all’estero tra Balcani, Iraq, Afghanistan. Nel frattempo è nato il terzo figlio maschio. «È difficile spiegare cosa ti passa per la testa in quei momenti. Il sangue, il dolore, la paura… Ma la concentrazione è massima, resta salda grazie all’addestramento che abbiamo ricevuto. Solo così riesci a non perdere il controllo. La Medaglia d’oro mi ha un po’ sorpreso. Certo, è stato un vero onore riceverla. Motivo di orgoglio e commozione». Tale riconoscimento, il massimo in campo militare, di solito viene assegnato alla memoria oppure a soldati e graduati destinati a «ruoli d’onore», non più operativi. Nei panni dell’eroe Adorno non si sente troppo a proprio agio: «Non sono un eroe, sono un soldato. Amo il mio Paese e fare il soldato è il modo in cui lo dimostro. Gli eroi oggi sono coloro che provvedono a una famiglia con uno stipendio misero». Sono ancora molti i ragazzi che scelgono la divisa per il proprio futuro. Il sergente li incontra spesso, in particolare alle presentazioni dell’autobiografia scritta insieme allo storico militare Gastone Breccia, Nome in codice: Ares (Mondadori, 2017). «Cosa dico a chi vuole arruolarsi nell’esercito? Che il suo è un atto di coraggio, che deve perseverare e non darsi per vinto. Questa è la strada di coloro che intendono dare un contributo agli altri attraverso le istituzioni». Anche se Adorno non vede per forza nella vita dei tre figli le stellette e l’elmetto: «Vorrei solo che fossero realizzati». La missione delle truppe italiane in Afghanistan non è stata solamente aiuto alla popolazione e pattugliamenti di vallate polverose, è stata una guerra combattuta sul campo, dove in tanti sono caduti. E le forze armate Nato sono tuttora sotto attacco. «Per me è stato giusto andarci, noi soldati eravamo lì a supportare un Paese che ne aveva bisogno». Alcuni hanno riportato indietro le ferite, «ma anche il ricordo del cielo stellato più bello che abbia mai visto».